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06 settembre 2007

Un ricordo per Luciano

Pur avendo abbandonato questo blog, sono certa che Beren possa capire la mia esigenza di lasciare in questo spazio il mio pensiero per questo grande maestro e la sua dolce voce, data la mia vicinanza al mondo della lirica.
Per uno strano gioco del destino, stasera è previsto a Bari il concerto d'apertura della stagione sinfonica del Teatro Piccinni con la settima sinfonia di Mahler diretta dal maestro indiano Zubin Mehta, il quale diresse i Tre Tenori nell'indimenticabile 7 Luglio del 1990 (ero piccola, in villeggiatura con i nonni, e ci ricordo tutti stretti al televisorino portato con noi per le vacanze estive).
Non so se il concerto ci sarà ancora, so che io sarò lì comunque.
In cuor mio spero che il maestro Mehta onori Big Luciano non con il classico minuto di silenzio dei campi sportivi, ma con ore della sua Musica. Sarebbe l'omaggio più grande.
Arrivederci Maestro.
"I think a life in music is a life beautifully spent and this is what I have devoted my life to"
Luciano Pavarotti (1935-2007)

06 agosto 2007

De consolatione philosophiae


Nessun maggior dolore

che ricordarsi del tempo felice

ne la miseria


In omni adversitate fortunae

infelicissimus est genus

infortunii fuisse felicem

22 luglio 2007

Liberazione dal Servaggio

"Tra i resoconti di dolore e rovina che ci sono giunti dalle tenebre di quei giorni, ve ne sono però alcuni dove il dolore si accompagna alla gioia e, all'ombra della morte, luce imperitura. E di tali storie, la più bella alle orecchie degli Elfi è pur sempre quella di Beren e Luthien.(...)
Lo spirito di Beren, per preghiera di lei, indugiò nelle aule di Mandos riluttante ad abbandonare il mondo, finchè Luthien giunse a dare l'ultimo addio alle tetre sponde del Mare Esterno, donde gli Uomini che muoiono partono per mai più tornare. Ma lo spirito di Luthien piombò nel buio, e alla fine fuggì, e il corpo di lei giacque simile a un fiore che sia d'un tratto svelto e per un pò rimanga, incorrotto, sull'erba.

Allora un inverno, quasi fosse la bianca stagione degli Uomini mortali, scese su Thingol. Luthien però giunse alle aule di Mandos, dove stanno i luoghi risevati agli Eldalie, di là dalle dimore dell'Ovest, ai confini del mondo. Ivi coloro che attendono se ne stanno nell'ombra dei loro pensieri.

Ma la bellezza di Luthien era più che la loro bellezza, e il suo dolore più profondo del loro; e Luthien si inginocchiò davanti a Mandos e cantò per lui.

Il canto di Luthien al cospetto di Mandos fu il più bello che mai sia stato contesto in parole, il canto più triste che mai il mondo udrà. Immutato, imperituro, ancora lo si canta in Valinor, inaudibile al mondo, e ad ascoltarlo i Valar si rattristano. Ché Luthien intrecciò due temi di parole, quello del dolore degli Eldar e quello della pena degli Uomini, le Due Stirpi che sono state fatte da Iluvatar per dimorare in Arda, il Regno della Terra tra le innumerevoli stelle. E mentre gli stava inginocchiata davanti, le lacrime cadevano sui piedi di Mandos come pioggia sulle pietre; e Mandos fu mosso a pietà, come mai era stato prima né mai è stato in seguito.

Ragion per cui convocò Beren ed (...) essi tornarono a incontrarsi di là dal Mare Occidentale. Mandos però non aveva il potere di trattenere gli spiriti degli Uomini che morivano entro i confini del mondo, dopo il tempo della loro attesa; né poteva mutare i destini dei Figli di Iluvatar.

Andò pertanto da Manwe, Signore dei Valar, che comandava il mondo per mandato di Iluvatar; e Manwe chiese consiglio al suo pensiero più intimo, dove la volontà di Iluvatar si rivelava.

E queste sono le scelte che egli offrì a Luthien. A cagione delle sue fatiche e del suo dolore, sarebbe stata liberata da Mandos, per andare a Valimar e quivi dimorare sino alla fine del mondo tra i Valar, dimenticando tutte le pene che aveva sopportato in vita. Lì però Beren non poteva recarsi, non essendo permesso ai Valar di esimerlo dalla Morte, la quale è il dono fatto da Iluvatar agli Uomini. L'altra scelta invece era questa: che essa potesse tornare nella Terra-di-Mezzo portando con sé Beren, per abitarvi ancora, ma senza alcuna certezza né di vita né di gioia. E sarebbe divenuta mortale, e soggetta a un secondo decesso, esattamente come lui; e allora avrebbe lasciato il mondo per sempre, e della sua bellezza sarebbe rimasta soltanto memoria nei canti.

Fu questa la sorte che Luthien scelse, voltando le spalle al Reame Beato e rinunciando a tutte le pretese di parentela con coloro che vi dimoravano; perchè in tal modo, quale che fosse il dolore che poteva attenderli, i destini di Beren e Luthien sarebbero stati uniti e i loro sentieri li avrebbero condotti insieme di là dai confini del mondo.."

08 maggio 2007

La famiglia prima di tutto

Anche se con un po' di ritardo, tenevo particolarmente a fare qualche riflessione sull'ultima puntata di "Anno Zero", di Michele Santoro, andata in onda giovedì scorso (e che ho potuto vedere in parte solo sabato alle 3 di notte in preda a obnubilazione onirica su RaisatExtra).
Per chi non avesse avuto modo di seguirla, si è parlato della cosiddetta "politica dei baroni" all'interno delle Università come indiscussa manovratrice, ahimé, di gran parte (leggi tutti) dei concorsi pubblici. Mi sono sintonizzata proprio nel momento in cui è partito l'ampio servizio sulla Facoltà di Medicina di Bari, città in cui ho il piacere di vivere (tanto più che oggi è San Nicola :) ). L'inviato si è presentato in facoltà, girando per reparti e biblioteche gremite di studenti, con addosso un enorme cartellone (sarà stato in passato un aspirante uomo-sandwich?) recante "l'albero genealogico" dei "pezzi da novanta" tutti presenti all'appello nei vari Istituti della facoltà. L'imbarazzante verità è che lì dove si erge un professore ordinario, quasi immancabilmente, si trovano una sfilza di persone con lo stesso cognome ("omonimi? No, no, proprio parenti" come ha detto il buon Travaglio). Figli, nipoti, ma si accettano anche amici "siori e siore"!!!! L'inviato ha realizzato una serie di interviste più o meno "flash" a diversi docenti il cui nome figurava nel cartellone (spicca tra tutti quella di Giorgino figlio), raccogliendo anche qualche dichiarazione rischiosa e prontamente ritirata ("...in Italia tutto funziona così.."), ma anche qualche provocazione (ma l'avranno capita?) come quella del prof. Schonauer (direttore di una delle cliniche ginecologiche al Policlinico di Bari) che ha prontamente fatto notare l'incompletezza del cartellone in quanto lacunoso dei nipoti da parte di madre, con cognomi differenti, dunque, da quelli dei più illustri parenti. Ma per fortuna il sangue non è acqua.
Ciò che forse si voleva sottolineare è che, a parte l'evidente gigantesca gravità della situazione, si stava realizzando un servizio da giornalisti d'assalto "stile iene", pervenendo non più che alla scoperta che una palla................rotola! Insomma tanti (leggi tutti) di questi episodi circa la nostra Facoltà di Medicina sono ben noti e fanno parte comunque di un fenomeno ben più ampio.
Insomma, senza alcun dubbio "c'è del marcio nel Tavoliere", ma questo è solo il tacco dello Stivale, come tante testate nazionali (vedi le inchieste di Repubblica) in passato hanno denunciato. Sono già partite da anni qui come altrove denunce alla Magistratura inerenti a concorsi spudoratamente truccati (tipo: nomi dei candidati vincitori noti ancor prima dell'uscita del bando.......la chiaroveggenza è una santa cosa!!).
C'è del marcio sì, non c'è dubbio, ma per quanto spettacolare (spettacolistico?), questo modo di fare giornalismo scandalistico realizzando degli scoop, che non sono scoop se non nella testa di chi li ha immaginati (e poi si è sognato a fare il discorso di ringraziamento col Pulitzer sotto braccio), personalmente mi ha davvero stancata. Avrei preferito delle schede di presentazione chiare ed esaustive (stile Matrix) seguite dai dibattiti di cui comunque la serata è stata ricca. Se qualcuno si è preso la briga di scrivere tutti quei nomi (pensavo fossero di più in effetti....) su un cartello e di appenderselo al collo per poi girare per tutto il Policlinico, c'è da pensare che in effetti non sia stato poi così difficile reperirli. Il problema del nepotismo è una piaga tipica della nostra forma mentis e invito a leggere la lettera di raccomandazioni di Travaglio, il momento più alto della trasmissione, una chicca di giornalismo intelligente, che toverete sul forum di Anno Zero.
"Per parenti, amici e amanti, si fa di tutto, di più. Alla luce del sole, con un certo vanto. Diceva Longanesi: “Nel tricolore andrebbe scritto: tengo famiglia”. "

15 aprile 2007

Ararat - Storia di un olocausto

E' stato particolarmente difficile per me trovare il modo di mettere su foglio bianco (seppur elettronico) gli spunti necessari per la realizzazione di questo post e la causa è il fortissimo impatto emotivo che la pellicola, oggetto di riflessione, suscita inevitabilmente nello spettatore.
L'input per la scrittura è giunto con l'uscita dell'ultimo lavoro dei fratelli Taviani "La masseria delle allodole" che ha come sfondo storico il genocidio del popolo armeno da parte degli Ottomani avvenuto nel 1915. Inevitabile per gli appasionati cinefili è il richiamo a un capolavoro della cinematografia canadese del 2002, Ararat, che ha come tema assoluto la medesima crudele vicenda umana e storica a seguito della quale hanno trovato la morte, si suppone, almeno un milione e mezzo di Armeni.
Passando attraverso le storie personali di una catena di personaggi le cui vite intrecciate rivelano parentele più o meno lontane con l'olocausto, il regista di origini armene Atom Egoyan (anche ideatore e sceneggiatore della pellicola) confeziona quest'opera di testimonianza accorata e di inequivocabile denuncia del tentativo di insabbiamento, ancora in corso da parte del popolo turco, riguardo gli atroci fatti accaduti in quella che fu l'antica Anatolia (Turchia orientale), lì dove già nel 451 (ci viene ricordato nel film) il glorioso popolo armeno aveva cacciato i Persiani, affondando saldamente le loro ancore nella storia.
"Ararat" è basato interamente e fedelmente sul libro-diario di Clarence Ussher "An American Physician in Turkey" ("Un medico americano in Turchia") pubblicato a Boston e New York nel 1917 e "tutti gli eventi in esso rappresentati"- precisa il regista - "sono stati verificati attraverso studiosi dell'olocausto, archivi nazionali, racconti di testimoni oculari tra i quali lo stesso Ussher".

La tecnica che Egoyan utilizza è quella del "film nel film", espediente con il quale trasforma la narrazione, che via via si fa sempre più cruda e violenta senza tuttavia svestirsi di un'aura fortemente poetica, in un set cinematografico attorno al quale orbitano i personaggi di questa storia che osservano con crescente tensione e coinvolgimento (climax: l'attore che interpreta Ussher, nelle scene finali del film, mescola spontaneamente mondo reale e realtà cinematografica come se fosse il vero medico) lo svolgersi delle riprese come se stessero realmente assistendo per la prima volta o rivivendo nei loro ricordi la genesi del massacro del loro popolo e la conseguente diaspora che, in qualche modo, ha portato tutti loro, come fosse volontà divina, a trovarsi lì in quel preciso istante.
E' sempre grazie a questa tecnica che il regista rende genialmente anche se stesso protagonista dell'opera e si ritaglia uno spazio importante per poter esprimersi senza dover delegare necessariamente alle battute dei protagonisti la forte carica emotiva delle sue idee.

La triade dei personaggi presentati nell'incipit costituisce la base di lancio indispensabile affinché, dal personale, sia possibile pian piano risalire a ritroso il ramo della storia nazionale e, attraverso la corteccia indurita della libertà violata di una genia, giungere alle radici comuni che rendono i superstiti e le loro successive generazioni indissolubilmente uniti.

Ani è una studiosa di Storia dell'Arte, suo figlio Raffi è un ragazzo che trova lavoro come autista sul set del film di cui la madre è consulente storica (o, come lei stessa si definisce nel film, "fornitrice di un alibi culturale per le vostre licenze poetiche") e Celia è la sua sorellastra, figlia del secondo marito di Ani, e sua compagna, tormentata dall'ossesione che la matrigna sia la causa della morte di suo padre.
Anche Raffi ha perduto il padre, ucciso mentre tentava di assassinare un diplomatico turco. Il tormento che accomuna i due ragazzi nel voler attribuire un significato alla morte dei genitori e la loro conseguente fragilità è ciò che li legherà nel corso della storia.

Il film per cui lavorano Raffi e Ani dovrà raccontare il genocidio attraverso gli occhi dell'allora ragazzo Arshile Gorky (pittore contemporaneo nato a Khorkom, presso Van, nel 1904 e morto suicida a Sherman, Connecticut, nel 1948) e del medico americano Clarence Ussher che si trova in missione nel villaggio armeno di Van proprio nel periodo in cui i Turchi ne hanno circondato i confini. Consapevole di ciò che sarebbe accaduto, Ussher affida una lettera-appello al mondo cristiano nelle mani di due bambini, di cui uno è proprio Gorky.
Caduti nelle mani dei turchi, i ragazzi subiscono la violenza degli oppressori e Gorky, in particolare, assiste impotente alle vessazioni che rimarranno per sempre scolpite nella sua mente e che sublimeranno nel celebre ritratto del 1912 "The Artist and His Mother" (conservato al Whitney Museum, NY), il quale ricopre a tutti gli effetti un ruolo da co-protagonista nella pellicola.

E' infatti estramamente curioso il modo in cui nel film si mescolino episodi di vita dei potagonisti, scene del genocidio (che nel film stesso rappresentano la finzione cinematografica) e visioni dell'artista Gorky, ormai maturo, nel suo studio mentre dipinge il ritratto a partire da una foto scattata prima del massacro, che avrebbe dovuto essere spedita al padre lontano al fine di rassicuralo circa la loro incolumità in quei tempi di terrore.
Il dipinto, come ci spiega la stessa Ani, non è una banale trasposizione della foto, bensì un modo che l'artista ha escogitato per "....risparmiare alla madre l'oltraggio dell'oblio. L'ha sottratta a un cumulo di cadaveri senza volto nè nome, per collocarla sul piedistallo dell'immortalità".
Ani commenta ancora il mazzolino di fiori che nell'opera l'artista stringe nella mano destra davanti a sè e che "simbolicamente" rappresenterebbe un dono al padre. Subito la scena della conferenza di Ani è staccata da quella in cui Gorky è nuovamente nel suo studio. Il suo sguardo si posa su un bottone, appeso alla foto, che l'artista ricorda di aver perduto poco prima che lui e la madre si mettessero in posa e motivo per il quale ella gli aveva suggerito al figlio di portare la sua mano davanti al busto affinché potesse coprire quel difetto. Il significato simbolico cede dunque il posto a un ricordo tenero e fanciullesco.

Memorabile e assolutamente struggente è il dialogo tra Raffi e il regista del film Saroyan (alter ego di Egoyan). Il regista ha appena avuto un incontro con Ali, l'attore di origini turche che nel suo lavoro interpreta l'effendi (essenzialmente un funzionario governativo turco). Quest'ultimo ha cercato in qualche modo di proporre al regista la sua visione degli eventi fornendo un'ottica alternativa a quella del genocidio, suggerendo che in fondo il popolo turco aveva motivo di sentirsi minacciato da quello armeno per via della pressione della Russia sui loro confini orientali e accennando a una preesistente conflittualità tra i due popoli.

Saroyan, la cui madre era una superstite dell'olcausto, non accenna la minima reazione alle parole di Ali e questo per Raffi, che da lontano ha assistito alla scena (questa volta è la scena del "nostro" film), è motivo di indignazione tanto da spingerlo a chiedere al regista spiegazioni in merito.
Saroyan seraficamente gli (ci) spiega: "Qual è la causa ancora oggi di tutto questo dolore? Non è la perdità delle persone care, nè della propria Terra, ma è la consapevolezza di poter essere odiati così tanto. Che razza di umanità è che ci odia fino a questo punto? E con quale coraggio insiste nel negare il suo odio finendo così per farci ancora più male?"

Raffi, nel suo percorso, cercando disperatamente qualcosa che gli dia la possibilità di non dimenticare, si riconcilia con la memoria del padre, il quale aveva sacrificato il suo ruolo genitoriale e di marito per assumere quello di martire per un ideale che solo ora il protagonista può comprendere.

La figura di Saroyan si presenta nel film allo stesso modo con il quale si congeda, assieme a un melograno. Questo frutto ha per il regista un profondo significato. Quando i soldati prelevarono sua madre, ella ne colse uno dal giardino e ogni giorno, durante la deportazione, ne magiava un seme fingendo che fosse un lauto banchetto. Il melograno è dunque per lui simbolo di fortuna ma anche della forza dell'immaginazione che ha reso possibile il suo lavoro.
Compiendo un passo indietro, il film si chiude con la dolcissima immagine della madre di Gorky che, canticchiando una folkloristica litania, cuce spensierata il bottone del suo paltò. E in quella serenità domestica noi spettatori viviamo pesantemente il contrasto emotivo dell'inelutabilità di ciò che sta per accadere e possiamo tentare di dare un significato a quelle mani della madre "incompiute" nel ritratto di Gorky (al quale l'artista lavorò ben dieci anni).
L'incompiutezza è voluta, anzi, probabilmente ricercata cancellando le mani precedentemente già dipinte, quasi a sottolineare l'oltraggio subito e la violazione dell'identità umana attraverso questa "mutilazione".
Buona visione.

23 marzo 2007

Del Tempo e della Memoria

Se siete giunti sin qui siete dei viaggiatori.
Seppure inconsapevolmente, sin dalla nascita siete stati equipaggiati dalla natura ad affrontare un viaggio spaziale la cui durata è, ahimé, irrisoria rispetto ai giganteschi numeri cui l’Universo è abituato.
La vostra astronave è speciale, almeno per la durata della vostra vita e per parecchie delle generazioni a voi successive (certo, a meno che “il cielo non ci cada sulla testa”, come direbbe Abraracourcix, capo della mitica tribù di irriducibili Galli…) continuerà il suo moto, autoalimentandosi e provvedendo anche alle vostre esigenze.
Parliamo della Terra, naturalmente, la nostra prima finestra nello spazio. E’ da qui che prendono vita le prime domande dello scienziato curioso che prova a giocare con ciò che sta al di là di questo oblò, mettendoci fuori il naso.
E’ qui, davanti all’ignoto, che prende vita la sete di conoscenza del cosmo e la voglia di poterlo immaginare come lo vogliamo.
“La fantascienza”, dice il fisico britannico Stephen Hawking, ”non è solo un buon divertimento, ma assolve anche a uno scopo serio, quello di espandere l’immaginazione umana”. E, aggiungerei io, non vi è alcun bisogno di essere un grande fisico per poter contare su una fervida e brillante immaginazione.
Lo scienziato suggerisce che in effetti lo scambio tra scienza e fantascienza è bidirezionale e che “la fantascienza di oggi è spesso la scienza di domani” (cfr. “La Fisica di Star Trek”, di L. M. Krauss).
Eppure è proprio quest’ultima che, più della prima, ci stupisce con le scoperte e le teorie più bislacche, al limite (e spesso ben oltre) dell' umana percezione della realtà.
Hawking ci fa ancora notare come l’attribuzione del nome “Black Holes” (letteralmente “Buchi Neri”) da parte di J. A. Wheeler nel 1967 a stelle super-collassate (già previste teoricamente da Oppeneimer come conseguenza della Relatività Generale di zio Albert) abbia fatto sì che su di esse venisse scritto molto più di quanto sarebbe stato fornendo loro un nome più austero, avendo in effetti tale appellativo incrementato di molto la loro valenza figurativa.
Il buco nero è certamente un oggetto fisico, ma la liricità del nome evoca nel lettore un inevitabile luogo sentimentale.
E’ pur vero, ci spiega ancora Hawking, che, spesso, per poter continuare a usufruire dei fondi della “National Science Foundation”, i fisici sono costretti a “occultare” le ricerche di carattere più fantascientifico come i viaggi nel tempo attribuendo loro denominazioni più seriose come “curve chiuse time-like (tipo tempo)”.
E’ stato il matematico viennese Kurt Gödel a sviluppare la teoria matematica (possibile solo e soltanto grazie alla succitata Teoria della Relatività di zio Alby, suo collega a Princeton) che renderebbe possibile (alla lettera uno scienziato cauto direbbe che “non esclude in linea teorica”) il viaggio nel tempo tramite “l’instaurarsi di un circolo chiuso di causalità”.
Il concetto è che se si percorre una curva chiusa a partire da un qualsiasi suo punto prima o poi necessariamente si tornerà al punto di partenza. Se la curva è di tipo tempo, analogamente a ciò che avviene nello spazio, ci si potrà muovere lungo tale curva e ritornare, a un certo punto, all’istante iniziale. Dunque ci si può muovere avanti e indietro….nel tempo!
Permettetemi di aggiungere che è una fortuna che esista lo spazio, con il quale abbiamo una maggiore dimestichezza nel comprendere questi spostamenti materiali, e grazie al quale comprendiamo meglio la materia più eterea di cui ci sembra sia costituito il tempo.

E’ interessante notare come un concetto fisico così essenziale risvegli momenti di vera poesia e di grande impatto sentimentale se solo si prova a pensare a esso in modo più personale.
Nel film diventato già un cult generazionale (e, che sia cult o no, personalmente amo moltissimo….a proposito, grazie Beren per avermelo regalato!!!:-***) “Donnie Darko” di R. Kelly, la teoria del viaggio del tempo, elaborata negli appunti che costituiscono i capitoli dell’affascinante trattato di una vecchia scienziata pazza (e che nello strambissimo menù del dvd è perfino possibile consultare), perde le atmosfere vulcaniane dell’Enterprise per assumere invece una dimensione emotiva, percepibile nell’idea dei tunnel temporali (visivamente una sorta di “lombrichi di luce”) che partono e attraversano i corpi degli amici di Donnie nello strano universo instabile casualmente formatosi dall'altrettanto incredibile incidente con cui la storia si apre. La potenza dell’elemento narrativo sta nella scelta che il protagonista compie tra i due universi possibili che costituiscono la sua realtà. Salverà se stesso o c’è qualcosa che lo porterà a optare per una coincidenza temporale differente?
La mistura assolutamente non banale di scienza e coscienza trova in questa pellicola un’ispirazione geniale. Il tempo come luogo fisico e il tempo come luogo dell’anima.
Ed è ancora il tempo, o meglio la percezione personale che del suo fluire si può avere, co-protagonista indiscusso di un altro movie assolutamente originale “Memento”, di C. Nolan, montato come se fosse un puzzle di cui dover ricomporre i pezzi, un po’ per avvicinarci alla visione del mondo del protagonista. Quest’ultimo, Leonard, a seguito di una misteriosa aggressione, è affetto da un particolare “disturbo” (cito testualmente.."la mia non è amnesia…") che porta la sua mente a “resettare” i ricordi dopo un brevissimo lasso temporale. Egli assume come missione e unica ragione di vita la vendetta dell’assassinio di sua moglie (che lui ricorda morta nel medesimo incidente) e in un meraviglioso monologo (che non riporto interamente perché nulla potrebbe sostituire le atmosfere buie e la musica discreta che timidamente, quasi nel rispetto del dolore di Leonard, fa capolino a sottolineare le semplici e struggenti parole, ciò significa che se non l’avete ancora visto….che fate?Siete ancora lì?:) ) si chiede “Come posso guarire, se non riesco a sentire il tempo?”.
Il tempo è dunque lontano dal ticchettio d’un orologio, assume un connotato assolutamente personale ed è la sensazione che la vita scorra e lasci l’impronta consolatoria e lenitiva nell’altra protagonista di questa intensa pellicola: la memoria.
La memoria è il mezzo che ci permette di registrare emotivamente la fisicità del tempo che passa. Se percorrendo la nostra linea chiusa ci ritrovassimo all’istante iniziale, pur essendo questo istante sempre il medesimo, lo “sperimentatore” avrebbe coscienza di un tempo proprio comunque trascorso. Tale coscienza costituirebbe la memoria della sua impresa. E proprio quando chi scrive questo post è colto dal dubbio di aver mischiato pericolosamente due composti esplosivi, ecco che un consolante ricordo artistico giunge in suo soccorso.
Anche l’eccentrico Salvador Dalì nel suo dipinto “La persistenza della memoria” (più noto volgarmente come il dipinto degli “orologi molli”, 1931) testimonia nel consueto stile surrealista il grande impatto emotivo e il conseguente riverbero anche in campo artistico, che immagineremmo lontano da quello razionale e scientifico, delle novità metriche dello spazio-tempo apportate dalla Teoria della Relatività einsteiniana.
Dalì deforma gli orologi (lo strumento che misura il tempo per eccellenza) per invitare l’osservatore a considerare la dimensione temporale con occhio nuovo e, oltre a ciò, racchiude nello spazio onirico della tela delle vaghe forme, come se la nostra mente registrasse i nostri ricordi in modo non convenzionale, rivoluzionario, come il caro vecchio Albert ci ha insegnato a fare. La deformazione degli oggetti corrisponde a mettere in dubbio che ciò che si ritiene ordinariamente razionale lo sia davvero e il dubbio stesso è lo strumento che ci permette di conquistare un senso in più.
Il tempo, dunque, non è più inesorabile (come il minuto di Kipling nei versi della sua “If”, inteso poeticamente come tempo da dover riempire con “qualcosa che valga sessanta secondi”), ma si piega in questo nuovo spazio e distrugge l’umana illusione di doversi arrendere a esso.

13 marzo 2007

Buoi e asini

Dal sito del Corriere, ho appreso la seguente notizia.

STRASBURGO (Francia) - La Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu) ha dichiarato «ricevibile» il ricorso presentato dai genitori e dalla sorella di Carlo Giuliani, morto a Genova nel 2001 durante gli scontri avvenuti in occasione del vertice del G8. Lo ha reso noto la stessa Corte precisando che la sentenza sarà pronunciata in altra data. La decisione dei giudici europei segue la prima udienza che si era tenuta il 5 dicembre scorso.
«FORZA ECCESSIVA» - La famiglia Giuliani nel suo ricorso a Strasburgo ha invocato, in particolare, l'articolo 2 della Convenzione dei diritti dell'uomo (diritto alla vita) sostenendo che la morte di Carlo «è dovuta ad un uso eccessivo della forza» e considerando che «l'organizzazione delle operazioni per ristabilire l'ordine pubblico non siano state adeguate». I ricorrenti lamentano inoltre «l'assenza di soccorsi» immediati che ha comportato la violazione degli articoli 2 e 3 della Convenzione (divieto di trattamenti inumani). L'istanza davanti alla Corte di Strasburgo è stata presentata il 18 giugno 2002.

Non mi stupisce tanto che la Cedu abbia giudicato ricevibile il ricorso della famiglia Giuliani, e capisco che anche ad anni di distanza il dolore possa indurre ad azioni di questo tipo.
Ma mi chiedo, è possibile che a queste persone non venga in mente che, forse, avrebbero fatto meglio a insegnare al proprio figlio "pacifista" che minacciare e usare un estintore contro qualcuno, di chiunque si tratti, sia da considerare un "uso eccessivo della forza"?

01 marzo 2007

Diritto di maternità

E’ dello scorso Gennaio la notizia che ha destato grande scalpore riguardante la tardiva maternità della rumena Adriana Iliescu, una donna di 67 anni che, dopo adolescenza, età adulta, età matura e terza età, è riuscita a coronare il suo sogno di avere un bambino.
La donna ha partorito due gemelline, delle quali una purtroppo non ce l’ha fatta, essendo arrivata all’ottavo mese di gestazione appena a 700 grammi.
Questa signora, una docente universitaria (probabilmente non di Bioetica….) ormai in pensione, si è sottoposta a ben nove anni di cure ormonali e, attraverso un procedimento di fecondazione extrauterina, la FIV-ET, ha potuto rimanere incinta.
La FIV-ET è una fecondazione in vitro, dunque extracorporea, che prevede poi il successivo trasferimento dell’embrione (ovulo fecondato) nell’utero della paziente.
L’eccezionalità dell’evento rischia di offuscare una lecita domanda: per una donna essere madre è un diritto?
Se la natura ci rendesse fisicamente inabili alla procreazione questo ci renderebbe donne solo a metà?
Vi propongo l’intervista che ho trovato su un sito realizzata da ZENIT alla dottoressa Navarini, docente universitaria di Bioetica (lei sì che lo è..:)). Per quanti di voi non lo sapessero, ZENIT è un’agenzia internazionale di notizie che hanno un interesse cattolico, ma voglio precisare che ho scelto questa intervista perché mi sembra che proponga spunti di riflessione interessanti al di là dello sfondo religioso che può emergere come background. L’etica e la religione (per fortuna, oserei dire) non sono la stessa cosa.
Certo ci sono alcuni pensieri un pò “forti” e discutibili, sui quali poter aprire un dibattito, ma, oltre la forma, emerge chiaro il rischio reale e crescente della strumentalizzazione della vita umana ad ogni costo. Compriamo scarpe (“….di merda, da donna, che costano milioni all’uomo….”, e qui cito il caro Elio) e con la stessa facilità anche tecniche per avere figli a 70 anni suonati, figli che corrono il rischio di occuparsi equamente a diciotto anni di esami di maturità e tasse di successione.
E poi sarebbe innaturale permettere a una coppia omosessuale, perfettamente sana e in “età genitoriale”, di adottare un bambino?
E’ difficile non pensare che dietro a questa, come a tante altre scelte del genere, non ci sia una forte componente egoistica, che asseconda un desiderio in virtù dell’amore per un figlio non ancora nato andando a creare un percorso di vita ad ostacoli proprio per quel figlio tanto amato.
Un paradosso.
Einstein ha detto che “il senso comune è l’insieme dei pregiudizi che ognuno ha assorbito fino all’età di diciotto anni”, ergo ognuno ha una propria personale percezione di ciò che è giusto o non lo è. E’ pur vero però che l’uomo, animale sociale hobbesiano, se privo di regole, imbocca la temuta strada del sonno della ragione. E genera mostri.

22 febbraio 2007

Essere unici al mondo

A chi di noi non è capitato un periodo difficile e chi di noi in quel momento non ha sentito il bisogno di rifugiarsi tra le pagine odorose di un libro sepolto, forse da anni, tra tanti altri, magari intonsi, cercando consolazione in una frase che certo ricordavamo, ma della quale mai avevamo colto a pieno il significato se non in quell’attimo di sete emotiva?

Nonostante lo struggimento della maturità espressa nei versi di Neruda, Hikmet e Baudelaire, mi accorgo che il dolore, la gioia e tutti i sentimenti più estremi sono legati alla sfera della fanciullezza.
Ed è scoprendo e riscoprendo tutto ciò, che ho chiuso le liriche e la profondità del racconto dell’avventura di “un’umanità oltreumana” del prezioso Zarathustra e mi è tornata in mente una piccola volpe.
L’esserino più tenero, saggio e indifeso che si possa immaginare è un personaggio nato dalla penna del pilota Antoine de Saint-Exupéry, autore de “Il piccolo principe” e uomo che, pur avendo dovuto affrontare una guerra, ha potuto conservare il cuore di un bambino.
Nel suo viaggio fantastico il piccolo protagonista e l’aviatore (in carne e ossa) mescolano le loro vite, generando lo spettro delle emozioni umane e dandoci la possibilità di scoprire e riconoscere l’amore e l’amicizia.
Nel suo incontro col piccolo principe, la volpe, desiderosa d’affetto, gli chiede di essere addomesticata. Ma il termine è estraneo all’ometto che viene da un asteroide lontano lontano…la piccola amica, per fortuna è lì per spiegargli tutto:
“Addomesticare vuol dire “creare dei legami”..”..Tu, fino a ora, per me non sei che un ragazzino uguale a centomila altri ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi noi avremo bisogno l’uno dell’altra. Tu sarai per me unico al mondo e io sarò per te unica al mondo”.
E’ così che il piccolo principe comprende che in passato forse anche lui, sul suo pianetino, era stato addomesticato da una rosa un po’ burbera, che però egli aveva sempre curato e protetto con amore dai venti impetuosi di un’atmosfera capricciosa.
La volpe gli spiega:
“Se tu mi addomestichi la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri.Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano. Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai i capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano che è dorato mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano….”
Così, dopo aver addomesticato la piccola volpe, al momento della separazione dolorosa, la volpe suggerisce al piccolo principe di andare a vedere alcune rose a loro vicine affinché possa capire davvero il valore di un legame.
Il piccolo principe si reca da loro e riflette:
“Voi siete belle, ma siete vuote. Non si può morire per voi. Certamente un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparata col paravento. Perché su di lei ho ucciso i bruchi (salvo due o tre per le farfalle). Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa.”
Noi siamo quello che addomestichiamo. Tutto ciò che amiamo, curiamo e viviamo entra dentro noi e noi in loro. E per quanto nel mondo siamo circondati da splendide rose che esistono ora, che nasceranno domani o tra anni, ameremo solo la nostra, perché in lei abbiamo riposto il nostro amore, la nostra speranza, in lei la felicità di un nuovo bocciolo, in lei il dolore di una spina. Perché lei è unica al mondo. Il legame è stato creato. E’ ormai tardi: la volpe ci ha insegnato ad amare.

06 febbraio 2006

La religione secondo noi italiani

Da qualche giorno stavo vedendo la pubblicità di un noto settimanale che, nelle prossime uscite, allegherà "La Bibbia e i grandi libri della religione". Immediatamente ho pensato che avrebbero allegato anche, quindi, libri tipo le Upanishad, i Veda, il Corano ecc. Mi è sembrato ovvio: i grandi libri della religione, che altro poteva significare? Ingenuo!!! Ieri, sfogliando (non a casa mia) il suddetto, anzi, suttaciuto settimanale, scopro che le quindici uscite comprendono: Bibbia (in 3+1 parti), vite dei santi, un'uscita solo su Padre Pio, i papi, la Madonna, ecc...
MA COME? Ma allora perché lo chiamano così, perché non aggiungere un semplice aggettivo al titolo delle uscite? perché non chiamarlo: "La Bibbia e i grandi libri della religione CRISTIANA"? Anzi, meglio, "La Bibbia e i grandi libri della religione CRISTIANA CATTOLICA"?
Mi rendo conto che questo è un nostro costume: se si dice religione, noi pensiamo immediatamente a quella cattolica, senza il minimo dubbio. Del resto è la religione di stato. Sono stato io ingenuo a pensare diversamente.
Faccio notare che questo nostro modo di fare si riflette anche nella scuola pubblica. Se ci pensate, a scuola gli insegnanti di religione (salvo rare eccezioni) sono di due tipi: o ci si trova il prete (vero o mancato), più o meno bravo a comunicare, ma il cui insegnamento verte solo sui principii del cattolicesimo, o l'insegnante che vuol fare Amici (quello di alcuni anni fa, non l'obbrobrio di ora). E che quindi l'argomento religioso (sempre comunque quello cattolico) lo sfiora solo, in modo da attrarre l'interesse dei ragazzi in maniera indiretta.
Personalmente mi sarebbe piaciuto molto di più se nell'ora di religione che facevo a scuola la mia professoressa mi avesse parlato di TUTTE le religioni, spiegandomene le basi come se si studiasse filosofia. Perché alla fine una religione è una filosofia, e allora perché non fare così, invece di fare sorbire anche a scuola le prediche che si evitano non andando in chiesa...