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15 aprile 2007

Ararat - Storia di un olocausto

E' stato particolarmente difficile per me trovare il modo di mettere su foglio bianco (seppur elettronico) gli spunti necessari per la realizzazione di questo post e la causa è il fortissimo impatto emotivo che la pellicola, oggetto di riflessione, suscita inevitabilmente nello spettatore.
L'input per la scrittura è giunto con l'uscita dell'ultimo lavoro dei fratelli Taviani "La masseria delle allodole" che ha come sfondo storico il genocidio del popolo armeno da parte degli Ottomani avvenuto nel 1915. Inevitabile per gli appasionati cinefili è il richiamo a un capolavoro della cinematografia canadese del 2002, Ararat, che ha come tema assoluto la medesima crudele vicenda umana e storica a seguito della quale hanno trovato la morte, si suppone, almeno un milione e mezzo di Armeni.
Passando attraverso le storie personali di una catena di personaggi le cui vite intrecciate rivelano parentele più o meno lontane con l'olocausto, il regista di origini armene Atom Egoyan (anche ideatore e sceneggiatore della pellicola) confeziona quest'opera di testimonianza accorata e di inequivocabile denuncia del tentativo di insabbiamento, ancora in corso da parte del popolo turco, riguardo gli atroci fatti accaduti in quella che fu l'antica Anatolia (Turchia orientale), lì dove già nel 451 (ci viene ricordato nel film) il glorioso popolo armeno aveva cacciato i Persiani, affondando saldamente le loro ancore nella storia.
"Ararat" è basato interamente e fedelmente sul libro-diario di Clarence Ussher "An American Physician in Turkey" ("Un medico americano in Turchia") pubblicato a Boston e New York nel 1917 e "tutti gli eventi in esso rappresentati"- precisa il regista - "sono stati verificati attraverso studiosi dell'olocausto, archivi nazionali, racconti di testimoni oculari tra i quali lo stesso Ussher".

La tecnica che Egoyan utilizza è quella del "film nel film", espediente con il quale trasforma la narrazione, che via via si fa sempre più cruda e violenta senza tuttavia svestirsi di un'aura fortemente poetica, in un set cinematografico attorno al quale orbitano i personaggi di questa storia che osservano con crescente tensione e coinvolgimento (climax: l'attore che interpreta Ussher, nelle scene finali del film, mescola spontaneamente mondo reale e realtà cinematografica come se fosse il vero medico) lo svolgersi delle riprese come se stessero realmente assistendo per la prima volta o rivivendo nei loro ricordi la genesi del massacro del loro popolo e la conseguente diaspora che, in qualche modo, ha portato tutti loro, come fosse volontà divina, a trovarsi lì in quel preciso istante.
E' sempre grazie a questa tecnica che il regista rende genialmente anche se stesso protagonista dell'opera e si ritaglia uno spazio importante per poter esprimersi senza dover delegare necessariamente alle battute dei protagonisti la forte carica emotiva delle sue idee.

La triade dei personaggi presentati nell'incipit costituisce la base di lancio indispensabile affinché, dal personale, sia possibile pian piano risalire a ritroso il ramo della storia nazionale e, attraverso la corteccia indurita della libertà violata di una genia, giungere alle radici comuni che rendono i superstiti e le loro successive generazioni indissolubilmente uniti.

Ani è una studiosa di Storia dell'Arte, suo figlio Raffi è un ragazzo che trova lavoro come autista sul set del film di cui la madre è consulente storica (o, come lei stessa si definisce nel film, "fornitrice di un alibi culturale per le vostre licenze poetiche") e Celia è la sua sorellastra, figlia del secondo marito di Ani, e sua compagna, tormentata dall'ossesione che la matrigna sia la causa della morte di suo padre.
Anche Raffi ha perduto il padre, ucciso mentre tentava di assassinare un diplomatico turco. Il tormento che accomuna i due ragazzi nel voler attribuire un significato alla morte dei genitori e la loro conseguente fragilità è ciò che li legherà nel corso della storia.

Il film per cui lavorano Raffi e Ani dovrà raccontare il genocidio attraverso gli occhi dell'allora ragazzo Arshile Gorky (pittore contemporaneo nato a Khorkom, presso Van, nel 1904 e morto suicida a Sherman, Connecticut, nel 1948) e del medico americano Clarence Ussher che si trova in missione nel villaggio armeno di Van proprio nel periodo in cui i Turchi ne hanno circondato i confini. Consapevole di ciò che sarebbe accaduto, Ussher affida una lettera-appello al mondo cristiano nelle mani di due bambini, di cui uno è proprio Gorky.
Caduti nelle mani dei turchi, i ragazzi subiscono la violenza degli oppressori e Gorky, in particolare, assiste impotente alle vessazioni che rimarranno per sempre scolpite nella sua mente e che sublimeranno nel celebre ritratto del 1912 "The Artist and His Mother" (conservato al Whitney Museum, NY), il quale ricopre a tutti gli effetti un ruolo da co-protagonista nella pellicola.

E' infatti estramamente curioso il modo in cui nel film si mescolino episodi di vita dei potagonisti, scene del genocidio (che nel film stesso rappresentano la finzione cinematografica) e visioni dell'artista Gorky, ormai maturo, nel suo studio mentre dipinge il ritratto a partire da una foto scattata prima del massacro, che avrebbe dovuto essere spedita al padre lontano al fine di rassicuralo circa la loro incolumità in quei tempi di terrore.
Il dipinto, come ci spiega la stessa Ani, non è una banale trasposizione della foto, bensì un modo che l'artista ha escogitato per "....risparmiare alla madre l'oltraggio dell'oblio. L'ha sottratta a un cumulo di cadaveri senza volto nè nome, per collocarla sul piedistallo dell'immortalità".
Ani commenta ancora il mazzolino di fiori che nell'opera l'artista stringe nella mano destra davanti a sè e che "simbolicamente" rappresenterebbe un dono al padre. Subito la scena della conferenza di Ani è staccata da quella in cui Gorky è nuovamente nel suo studio. Il suo sguardo si posa su un bottone, appeso alla foto, che l'artista ricorda di aver perduto poco prima che lui e la madre si mettessero in posa e motivo per il quale ella gli aveva suggerito al figlio di portare la sua mano davanti al busto affinché potesse coprire quel difetto. Il significato simbolico cede dunque il posto a un ricordo tenero e fanciullesco.

Memorabile e assolutamente struggente è il dialogo tra Raffi e il regista del film Saroyan (alter ego di Egoyan). Il regista ha appena avuto un incontro con Ali, l'attore di origini turche che nel suo lavoro interpreta l'effendi (essenzialmente un funzionario governativo turco). Quest'ultimo ha cercato in qualche modo di proporre al regista la sua visione degli eventi fornendo un'ottica alternativa a quella del genocidio, suggerendo che in fondo il popolo turco aveva motivo di sentirsi minacciato da quello armeno per via della pressione della Russia sui loro confini orientali e accennando a una preesistente conflittualità tra i due popoli.

Saroyan, la cui madre era una superstite dell'olcausto, non accenna la minima reazione alle parole di Ali e questo per Raffi, che da lontano ha assistito alla scena (questa volta è la scena del "nostro" film), è motivo di indignazione tanto da spingerlo a chiedere al regista spiegazioni in merito.
Saroyan seraficamente gli (ci) spiega: "Qual è la causa ancora oggi di tutto questo dolore? Non è la perdità delle persone care, nè della propria Terra, ma è la consapevolezza di poter essere odiati così tanto. Che razza di umanità è che ci odia fino a questo punto? E con quale coraggio insiste nel negare il suo odio finendo così per farci ancora più male?"

Raffi, nel suo percorso, cercando disperatamente qualcosa che gli dia la possibilità di non dimenticare, si riconcilia con la memoria del padre, il quale aveva sacrificato il suo ruolo genitoriale e di marito per assumere quello di martire per un ideale che solo ora il protagonista può comprendere.

La figura di Saroyan si presenta nel film allo stesso modo con il quale si congeda, assieme a un melograno. Questo frutto ha per il regista un profondo significato. Quando i soldati prelevarono sua madre, ella ne colse uno dal giardino e ogni giorno, durante la deportazione, ne magiava un seme fingendo che fosse un lauto banchetto. Il melograno è dunque per lui simbolo di fortuna ma anche della forza dell'immaginazione che ha reso possibile il suo lavoro.
Compiendo un passo indietro, il film si chiude con la dolcissima immagine della madre di Gorky che, canticchiando una folkloristica litania, cuce spensierata il bottone del suo paltò. E in quella serenità domestica noi spettatori viviamo pesantemente il contrasto emotivo dell'inelutabilità di ciò che sta per accadere e possiamo tentare di dare un significato a quelle mani della madre "incompiute" nel ritratto di Gorky (al quale l'artista lavorò ben dieci anni).
L'incompiutezza è voluta, anzi, probabilmente ricercata cancellando le mani precedentemente già dipinte, quasi a sottolineare l'oltraggio subito e la violazione dell'identità umana attraverso questa "mutilazione".
Buona visione.

23 marzo 2007

Del Tempo e della Memoria

Se siete giunti sin qui siete dei viaggiatori.
Seppure inconsapevolmente, sin dalla nascita siete stati equipaggiati dalla natura ad affrontare un viaggio spaziale la cui durata è, ahimé, irrisoria rispetto ai giganteschi numeri cui l’Universo è abituato.
La vostra astronave è speciale, almeno per la durata della vostra vita e per parecchie delle generazioni a voi successive (certo, a meno che “il cielo non ci cada sulla testa”, come direbbe Abraracourcix, capo della mitica tribù di irriducibili Galli…) continuerà il suo moto, autoalimentandosi e provvedendo anche alle vostre esigenze.
Parliamo della Terra, naturalmente, la nostra prima finestra nello spazio. E’ da qui che prendono vita le prime domande dello scienziato curioso che prova a giocare con ciò che sta al di là di questo oblò, mettendoci fuori il naso.
E’ qui, davanti all’ignoto, che prende vita la sete di conoscenza del cosmo e la voglia di poterlo immaginare come lo vogliamo.
“La fantascienza”, dice il fisico britannico Stephen Hawking, ”non è solo un buon divertimento, ma assolve anche a uno scopo serio, quello di espandere l’immaginazione umana”. E, aggiungerei io, non vi è alcun bisogno di essere un grande fisico per poter contare su una fervida e brillante immaginazione.
Lo scienziato suggerisce che in effetti lo scambio tra scienza e fantascienza è bidirezionale e che “la fantascienza di oggi è spesso la scienza di domani” (cfr. “La Fisica di Star Trek”, di L. M. Krauss).
Eppure è proprio quest’ultima che, più della prima, ci stupisce con le scoperte e le teorie più bislacche, al limite (e spesso ben oltre) dell' umana percezione della realtà.
Hawking ci fa ancora notare come l’attribuzione del nome “Black Holes” (letteralmente “Buchi Neri”) da parte di J. A. Wheeler nel 1967 a stelle super-collassate (già previste teoricamente da Oppeneimer come conseguenza della Relatività Generale di zio Albert) abbia fatto sì che su di esse venisse scritto molto più di quanto sarebbe stato fornendo loro un nome più austero, avendo in effetti tale appellativo incrementato di molto la loro valenza figurativa.
Il buco nero è certamente un oggetto fisico, ma la liricità del nome evoca nel lettore un inevitabile luogo sentimentale.
E’ pur vero, ci spiega ancora Hawking, che, spesso, per poter continuare a usufruire dei fondi della “National Science Foundation”, i fisici sono costretti a “occultare” le ricerche di carattere più fantascientifico come i viaggi nel tempo attribuendo loro denominazioni più seriose come “curve chiuse time-like (tipo tempo)”.
E’ stato il matematico viennese Kurt Gödel a sviluppare la teoria matematica (possibile solo e soltanto grazie alla succitata Teoria della Relatività di zio Alby, suo collega a Princeton) che renderebbe possibile (alla lettera uno scienziato cauto direbbe che “non esclude in linea teorica”) il viaggio nel tempo tramite “l’instaurarsi di un circolo chiuso di causalità”.
Il concetto è che se si percorre una curva chiusa a partire da un qualsiasi suo punto prima o poi necessariamente si tornerà al punto di partenza. Se la curva è di tipo tempo, analogamente a ciò che avviene nello spazio, ci si potrà muovere lungo tale curva e ritornare, a un certo punto, all’istante iniziale. Dunque ci si può muovere avanti e indietro….nel tempo!
Permettetemi di aggiungere che è una fortuna che esista lo spazio, con il quale abbiamo una maggiore dimestichezza nel comprendere questi spostamenti materiali, e grazie al quale comprendiamo meglio la materia più eterea di cui ci sembra sia costituito il tempo.

E’ interessante notare come un concetto fisico così essenziale risvegli momenti di vera poesia e di grande impatto sentimentale se solo si prova a pensare a esso in modo più personale.
Nel film diventato già un cult generazionale (e, che sia cult o no, personalmente amo moltissimo….a proposito, grazie Beren per avermelo regalato!!!:-***) “Donnie Darko” di R. Kelly, la teoria del viaggio del tempo, elaborata negli appunti che costituiscono i capitoli dell’affascinante trattato di una vecchia scienziata pazza (e che nello strambissimo menù del dvd è perfino possibile consultare), perde le atmosfere vulcaniane dell’Enterprise per assumere invece una dimensione emotiva, percepibile nell’idea dei tunnel temporali (visivamente una sorta di “lombrichi di luce”) che partono e attraversano i corpi degli amici di Donnie nello strano universo instabile casualmente formatosi dall'altrettanto incredibile incidente con cui la storia si apre. La potenza dell’elemento narrativo sta nella scelta che il protagonista compie tra i due universi possibili che costituiscono la sua realtà. Salverà se stesso o c’è qualcosa che lo porterà a optare per una coincidenza temporale differente?
La mistura assolutamente non banale di scienza e coscienza trova in questa pellicola un’ispirazione geniale. Il tempo come luogo fisico e il tempo come luogo dell’anima.
Ed è ancora il tempo, o meglio la percezione personale che del suo fluire si può avere, co-protagonista indiscusso di un altro movie assolutamente originale “Memento”, di C. Nolan, montato come se fosse un puzzle di cui dover ricomporre i pezzi, un po’ per avvicinarci alla visione del mondo del protagonista. Quest’ultimo, Leonard, a seguito di una misteriosa aggressione, è affetto da un particolare “disturbo” (cito testualmente.."la mia non è amnesia…") che porta la sua mente a “resettare” i ricordi dopo un brevissimo lasso temporale. Egli assume come missione e unica ragione di vita la vendetta dell’assassinio di sua moglie (che lui ricorda morta nel medesimo incidente) e in un meraviglioso monologo (che non riporto interamente perché nulla potrebbe sostituire le atmosfere buie e la musica discreta che timidamente, quasi nel rispetto del dolore di Leonard, fa capolino a sottolineare le semplici e struggenti parole, ciò significa che se non l’avete ancora visto….che fate?Siete ancora lì?:) ) si chiede “Come posso guarire, se non riesco a sentire il tempo?”.
Il tempo è dunque lontano dal ticchettio d’un orologio, assume un connotato assolutamente personale ed è la sensazione che la vita scorra e lasci l’impronta consolatoria e lenitiva nell’altra protagonista di questa intensa pellicola: la memoria.
La memoria è il mezzo che ci permette di registrare emotivamente la fisicità del tempo che passa. Se percorrendo la nostra linea chiusa ci ritrovassimo all’istante iniziale, pur essendo questo istante sempre il medesimo, lo “sperimentatore” avrebbe coscienza di un tempo proprio comunque trascorso. Tale coscienza costituirebbe la memoria della sua impresa. E proprio quando chi scrive questo post è colto dal dubbio di aver mischiato pericolosamente due composti esplosivi, ecco che un consolante ricordo artistico giunge in suo soccorso.
Anche l’eccentrico Salvador Dalì nel suo dipinto “La persistenza della memoria” (più noto volgarmente come il dipinto degli “orologi molli”, 1931) testimonia nel consueto stile surrealista il grande impatto emotivo e il conseguente riverbero anche in campo artistico, che immagineremmo lontano da quello razionale e scientifico, delle novità metriche dello spazio-tempo apportate dalla Teoria della Relatività einsteiniana.
Dalì deforma gli orologi (lo strumento che misura il tempo per eccellenza) per invitare l’osservatore a considerare la dimensione temporale con occhio nuovo e, oltre a ciò, racchiude nello spazio onirico della tela delle vaghe forme, come se la nostra mente registrasse i nostri ricordi in modo non convenzionale, rivoluzionario, come il caro vecchio Albert ci ha insegnato a fare. La deformazione degli oggetti corrisponde a mettere in dubbio che ciò che si ritiene ordinariamente razionale lo sia davvero e il dubbio stesso è lo strumento che ci permette di conquistare un senso in più.
Il tempo, dunque, non è più inesorabile (come il minuto di Kipling nei versi della sua “If”, inteso poeticamente come tempo da dover riempire con “qualcosa che valga sessanta secondi”), ma si piega in questo nuovo spazio e distrugge l’umana illusione di doversi arrendere a esso.

08 marzo 2007

Antonia’s line: storia di un matriarcato

Approfitto di questo giorno per portare alla vostra attenzione un film tutto al femminile datato 1995, che, pur avendo conquistato lo strameritato zio Oscar come miglior film straniero, ho avuto modo di constatare quanto sia sconosciuto ai più. ”L’albero di Antonia” della regista-drammaturga Marleen Gorris è lo stupefacente frutto di un’insolita coproduzione olandese, belga e inglese che ripercorre la vita della energica Antonia e della sua progenie dal momento in cui, rimasta vedova a causa della guerra, torna a casa con sua figlia Danielle. Già dalle prime battute della pellicola si intuisce che l’elemento maschile è assolutamente marginale e volto esclusivamente all’elargizione dell’eredità filiale: l’unica prova della presenza passata del marito di Antonia è la loro figlia.
Antonia stessa torna a casa appena in tempo per assistere alla morte dell’anziana madre e per raccoglierne l’ideale filo che le servirà a tessere da allora in avanti il suo possente ma caloroso matriarcato.
Da qui in poi emerge una schiera di simpatici e meno amabili personaggi tipici di una piccola e gretta comunità rurale che gravitano attorno alla famiglia di Antonia: il fattore “scemo”, il viscido parroco, la donna pazza che ulula alla luna il suo amore perduto,e ultimo, ma non ultimo, il poetico Dito Storto, filosofo pessimista che elargisce pensieri struggenti citando Schopenhauer e Nietzsche e ricordandoci tanto il leopardiano pessimismo cosmico e che termina il suo ruolo nella narrazione da vero stoico…..
Il ruolo del maschio si fa esplicito quando Danielle, decisa ad aver un figlio, si reca con la madre da un bravo quanto insulso ragazzo in un “giorno propizio” del mese perché egli renda possibile la continuità dei suoi affetti, continuità che prevede la dolce e non del tutto inaspettata unione saffica tra Danielle e Therese.
Nel film l’uomo costituisce lo sfondo talora positivo (potrei dire di fedele compagno, come accade per la figura di Boer Bas, prima aspirante marito, poi allegro convivente di Antonia), talora negativo, talora assolutamente insignificante (la stoccata peggiore all’orgoglio del sesso forte).
La mistura di lirismo e violenza, pazzia e forza ricorda altri capolavori della scuola fiammingo-danese come “Il pranzo di Babette”, ove anche lì tre donne trovano in se stesse e nella loro forza il modo di riunire un’intera comunità.
Capolavoro anticonformista, ”L’albero di Antonia” ci lascia come ultimo dono le parole “…e nell’attimo in cui tutto finisce, niente finisce….”. Eccolo qui il tema del film, sempre presente eppure, abilmente nascosto qua e là: il tempo.
Antonia ha terminato il suo, ma, come un cerchio che cerchio non è perché mai si chiude, il fluire degli eventi e delle persone continua oltre il materiale e trae vita dalla nostra eredità d’affetti che, nella donna, trova la sua più importante espressione nella procreazione.
Non ci resta che sperare che sia femmina.

ps: per qualche motivo non riesco più a modificare in basso l'autore del post, che in realtà è Luthien.

02 febbraio 2006

Il Pianista

Era da un po' di giorni (da prima di aprire il blog, in realtà) che volevo scrivere alcune cose sul film "Il pianista", che ho visto qualche giorno fa. Avevo anche già scritto un post qui su questo film, ma era più che altro volto a ironizzare su alcune dichiarazioni del presidente dell'Iran.
Ciò che invece mi spinge a scrivere un post serio è la grandissima emozione che mi ha fatto provare una scena in particolare, quella che secondo me è la più importante del film. Per capire il senso della scena è necessario conoscere la vicenda: il protagonista (il pianista Wladyslaw Szpilman, la cui storia è raccontata anche in un suo libro) vive a Varsavia ed è agli inizi della sua carriera concertistica, quando i nazisti iniziano ad applicare le leggi razziali contro gli ebrei. In una spirale di follia, è costretto come i suoi simili dapprima a portare una fascia che li distingua dalla "gente normale", e poi ad andare ad abitare nel ghetto, murato per limitare le diverse zone. Seguono episodi in cui è sempre più chiaro ai loro occhi che ciò che sta accadendo sia ben più tragico di ciò che sembrava loro all'inizio. Il regista (Roman Polanski) non lesina scene di truci uccisioni ad opera dei soldati nazisti, ma nonostante ciò il film si concentra principalmente sul dramma personale di un uomo che, come accade a tanti altri, si trova di fronte alla violenza inusitata e del tutto gratuita non solo dei tedeschi, ma anche degli ebrei che si sono prestati a fare servizio di polizia per loro. Per miracolo riesce a fuggire dal treno che portava la sua famiglia e quasi tutti gli abitanti del ghetto verso una ignota destinazione, e da allora inizia a essere sempre più solo, lavora alla costruzione di un palazzo con altri sfuggiti alla deportazione, riesce a fuggire e a nascondersi in diverse abitazioni in Varsavia, grazie a un'amica violoncellista. E per tutto il tempo si assiste al degrado dell'uomo, sempre più svilito, malato; per ironia della sorte nella sua ultima casa si trova un pianoforte che non può suonare per non essere scoperto. L'apice di questo climax è nella lunga sequenza in cui egli, dopo la cacciata dei nazisti, vaga solo per quello che rimane della sua bella città (impressiona la scena della strada con tutti i palazzi distrutti),non si sente un dialogo, il suo aspetto è stravolto, zoppica, trova una casa più integra delle altre e si nasconde in soffitta portando con sè una scatola di cetrioli che non sa come aprire. Una delle volte in cui scende per trovare degli attrezzi, lo scopre un ufficiale tedesco in perlustrazione. "Che fai?" "Cerco di aprire questa scatola" "Sei ebreo?" "Sì" "Che lavoro fai" "sono...ero un pianista" "Mi suoni qualcosa?". La richiesta sembra quasi grottesca, ma è al contempo seria e gentile, quasi che anche l'ufficiale tedesco aspiri a qualcosa di diverso della guerra nella quale si trova. Credo che l'essenzialità del dialogo sia voluta, per fare sì che il lungo silenzio sia spezzato solamente dal brano che il protagonista sceglie di suonare (la ballata n.1 di Chopin, op.23 in sol m). Come dicevo, la vicenda è un dramma personale, in cui la realtà storica fa solo da sfondo, rimane all'esterno, per riemergere prepotentemente dall'interno, si rispecchia nell'abbruttimento fisico del pianista, nel suo logorio, nel ridursi delle sue necessità all'essenziale, a ciò che serve a sopravvivere (nascondersi e mangiare). Ma, seppure spogliato esteriormente, in lui vi è ancora qualcosa di umano, che lo ha accompagnato per tutto il tempo, e che alla richiesta dell'ufficiale riaffiora in tutta la sua forza, ne riafferma l'umanità negatagli fino ad allora, al pianoforte appare trasformato, è ritto sulla sedia, sicuro nei movimenti che tante volte ha ripetuto dentro di sè. Mi piace pensare che il tedesco non abbia deciso di coprirlo (e quindi salvarlo) perché affascinato dalla musica o esclusivamente per bontà d'animo, ma perché per suo tramite abbia visto davanti a sè non un ebreo, o un polacco, ma solo un Uomo nella sua dignità riaquistata.