Era ieri, non oggi, ma ne approfitto per ricordare che è possibile sottoscrivere grazie a
ItalianBlogs4Darfur un
appello ai media italiani per chiedere loro di rivolgere maggiore attenzione verso questa tragedia.
Riporto infine un articolo de La Stampa di ieri, citato anche da IB4D:
TRAGEDIA DIMENTICATA. A GEREIDA LA PIÙ GRANDE CRISI UMANITARIA DEL PIANETA VIENE IGNORATA DA TUTTI E UN’INTERA POPOLAZIONE SI SENTE TRADITA DALL’ONU CHE NON RIESCE A MANDARE I CASCHI BLUDarfur, prigione a cielo apertoCentotrentamila profughi abbandonati agli squadroni della morte 17/9/2006di Chaterine SimoneUn guerrigliero del DarfurGEREIDA (Sud Darfur). Seduto in una povera capanna di frasche, un mazzo di fiori di plastica e un mangiacassette posati su un tavolino, Adil, il giovane re dei Massaliti, dice che sì, ha passato un brutto quarto d’ora. Turbante bianco, occhiali scuri, il «monarca» parla lentamente, in un inglese approssimativo. «Hanno persino cercato di rubarmi il satellitare», s’indigna. In Africa l’autorità dei re tribali non è più quella d’un tempo. Adil è re per caso. Il vero monarca, suo cugino, è partito da Gereida di buon mattino, lavora a Khartoum come ufficiale di polizia. Il primo settembre, all’alba, Gereida, piccolo centro del Far West sudanese, nell’estremo Sud Darfur, è stato attaccato da una dozzina di uomini. Massaliti, la tribù predominante nella regione, la stessa governata dal giovane Adil. Ma, come dice il re a interim, «senza soldi non c’è potere». Quella mattina i colpi d’arma da fuoco hanno svegliato la città, provocando «da due a quattro morti, secondo le fonti», precisa il governatore di Nyala. Tre feriti sono all’ospedale, uno è grave. Tutti contro tutti Per il Darfur è nulla, ma l’incidente è di cattivo auspicio. Per la prima volta, a Gereida, i Massaliti hanno attaccato gli Zaghawa, un’altra tribù tra le più influenti del Darfur. Tutti i combattenti facevano parte dell’Armata di liberazione del Sudan (Als) e più precisamente della fazione principale, comandata da Minni Arku Minnawi, un Zaghawa. E allora? Neri contro altri neri. Neri nel Darfur? In Sudan nulla è semplice. Dallo scoppio del conflitto, nell’aprile 2003, quando i combattenti dell’Als insorti contro il potere centrale e la sua politica discriminatoria, condussero il loro primo attacco di rilievo, contro l’aeroporto di El Fasher, capitale del Nord Darfur, l’Onu ha contato 300 mila morti e circa 2,5 milioni di profughi. Fin lì la tragedia sembrava uno scontro fra gli «arabi» e gli «africani» del Darfur, il regime arabo-islamista di Khartoum, sede del potere centrale, e le milizie janjawid, alla lettera «cavalieri demoniaci», per terrorizzare i villaggi e cacciare i contadini dalle loro terre. Poi le cose si sono complicate. «All’inizio - spiega un funzionario dell’Onu di stanza a Nyala - il conflitto contrapponeva l’esercito governativo ai ribelli dell’Als. Ma dopo l’accordo di pace di Abuja (siglato il 5 maggio fra il governo e la principale fazione, comandata da Minni Minnawi), la ribellione si è frammentata. Al Nord, nella regione di El Fasher, la guerra divampa fra i partigiani Zaghawa di Minnawi e i combattenti Four di Abdel Wahid Al Nur, capo della fazione minoritaria dell’Als, che non ha sottoscritto gli accordi di Abuja. E gli stessi Four sono divisi fra i seguaci di Adbel Wahid e quelli del suo ex braccio destro, Abdel Charfi». È chiaro che, con la fine delle piogge, scoppierà il caos nel Darfur, provincia sudanese grande come la Francia, abitata da 7 milioni di persone. Nessuno protegge i villaggi e i profughi ammassati nei campi di raccolta. I dirigenti della fazione dominante dell’Als hanno altre priorità. Dopo la pace con Khartoum Minni Minnawi è stato promosso «consigliere speciale» del presidente Omar al-Bashir, suscitando invidie e rancori tra i vecchi amici dei tempi della rivolta. Sul terreno «è il caos», conferma un diplomatico europeo. Fra i firmatari di Abja e i dissidenti, fra i guerriglieri pentiti e gli irriducibili, si aprono nuovi fronti. Si moltiplicano attacchi e rappresaglie. I 7.000 soldati dell’Unione africana, che a fine settembre dovrebbero ritirarsi, stanno a guardare. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha votato, il 31 agosto, l’invio di caschi blu. Ma Khartoum non vuole e il dispiegamento dei soldati della pace appare sempre più improbabile. Vietato girare disarmati Di fatto, al di fuori dei grandi agglomerati, spesso tenuti dalle forze governative, la maggior parte della provincia è stata dichiarata, con il motivo della crescente insicurezza, off limits alle organizzazioni umanitarie. Dopo che i raid janjawid li hanno privati dei loro campi, centinaia di migliaia di sudanesi ora sono privati di ogni soccorso. Il governo intende inviare ingenti rinforzi militari a Nyala e, soprattutto, a El Fasher. La decisione prelude forse a nuovi massacri che, potrebbero, stavolta, essere perpetrati su più ampia scala e a porte chiuse? Le minacce alla stampa straniera e le sanzioni recentemente decise da Khartoum contro le ong possono lasciarlo credere. «Non posso più nemmeno entrare nella regione dove lavoravo fino a 6 mesi fa: attorno al villaggio di Korma, le truppe dell’Als fanno muro», testimonia Claire Allard, che è stata ad Al Fasher dal luglio 2005 al marzo 2006. Responsabile dell’aiuto alimentare per l’ong francese Acf, Action cointre la faim, è arrivata a Gereida il 1° giugno. Più o meno contemporaneamente ai nuovi profughi del Darfur Sud, in fuga dai janjawid. Gereida è un piccolo centro dimenticato di 20 mila anime che ha visto crescere a dismisura i suoi abitanti con l’arrivo dei rifugiati. In due anni è diventato il più grande campo profughi del mondo: 130 mila persone, ai limiti della sopravvivenza. Con solo 6 ong, fra cui la Croce Rossa internazionale, incaricate di provvedere ai bisogni più urgenti, cibo, acqua potabile, un minimo di medicinali. «C’è almeno un fattore di stabilità - osserva l’intrepido impiegato locale dell’Acf - quasi tutti i profughi sono Massaliti. Fossero stati di origini diverse, come al campo di Kalma, la situazione sarebbe già esplosa». Gereida è un’isola nella campagna verde e deserta, dove i civili disarmati non osano nemmeno avventurarsi. Una prigione a cielo aperto, che è il destino comune alla maggior parte delle città del Darfur. Perché l’Onu non arriva? Abugasim Jibril Ibrahim, l’uomo più ricco di Gereida, è preoccupato. «Bisogna che ci difendiamo da soli, perché nessuno ci protegge. Abbiamo bisogno di armi», ripete senza posa. Seduto su uno sgabello di corde incrociate, sotto a un albero lungo la strada, Abugasim, ha una settantina d’anni. Indossa una djellaba bianca e un turbante tradizionale, ha calzini grigi flosci e sandali di plastica. Accanto a lui una stampella. Ad aprile è stato ferito dai janjawid sulla strada di ritorno da Nyala. Prima della guerra aveva una mandria di 157 vacche, terre, negozi, magazzini e camion. «Sarei ancora ricco se avessi fatto scorte di acciaio e di macchinari», spiega. Del suo bestiame, razziato, non resta nulla. «Il Darfur è povero - prosegue - e la sua sola ricchezza è il commercio. Ma non possiamo più muoverci: le piste non sono sicure. Finché ci sono le ong ce la caviamo. Ma l’Onu dovrebbe decidersi a mandare i soldati. Lo dica, è urgente. Se i janjawid assaltano la città chi li ferma?». Nato a Gereida, anche lui commerciante, Fakhr Adeen Mussa è incaricato di raccogliere «l’imposta» versata all’Als dai mercanti della città. «Quindici milioni di lire (circa 5.200 euro), ogni mese». «Chi rifiuta di pagare viene minacciato di finire in carcere», aggiunge. Peraltro questo non garantisce la sicurezza. «Questa guerra è un brutto colpo per gli affari», sospira. Un suo fratello è stato ferito dai janjawid e il suo camion «depredato, a due riprese», dai Fellata e dai Mahedin, due tribù «arabe» della regione. Prima del conflitto Fakhr Adeen Mussa aveva una dozzina di impiegati. Gliene restano sei, e non è male. Perché chi era diventato milionario affittando a peso d’oro alloggi alle ong oggi si ritrova su lastrico, come la maggior parte dei rifugiati. Oggi, a Gereida, non ci sono più il bestiame, i campi e i commerci che davano lavoro. Il primo imprenditore è la Croce Rossa che ha arruolato oltre 200 locali, fra cui qualche donna. Sottosviluppo cronico «Devono aiutarci a costruire scuole, ospedali e strade»: Abugasim sogna a occhi aperti. Quando era ragazzo, nei primi Anni ‘50, in Sudan c’erano 23 scuole secondarie, di cui una sola in Darfur. A fine 2002 la provincia aveva solo 160 chilometri di strade asfaltate, non opera dello stato ma dalla Banca Mondiale, negli Anni ‘70», scrive Gérard Preunier nel suo libro «Le Darfour, un génocide ambigu», Le Table ronde, 2005. L’opera, che traccia la storia dell’antico sultanato, offre mille esempi dell’«assoluto sottosviluppo» nel quale i regimi succedutisi a Karthoum hanno lasciato questa provincia, già base di tutti i commerci. A Gereida, dove le case non si distinguono in nulla dalle capanne dei profughi, la miseria è immensa, ma l’ordine regna nei «quartieri», nati in base ai villaggi d’origine. Il mezzo degli aiuti umanitari fa il suo giro. Se tutto va bene, Acf distribuirà, in dieci giorni, cibo sufficiente per un mese. La clinica della Croce Rossa, aperta nel 2004, assiste da 500 a 600 pazienti al giorno, relativamente pochi rispetto ai 700 dei mesi «caldi», aprile e maggio. Le donne, con i loro bambini, sono più numerose. Le patologie respiratorie sono il problema più comune. E gli stupri. Le donne vanno a cercar legna da ardere in campagna e sono assalite. Gli uomini non ci vanno. «Una donna rischia l’aggressione, ma un uomo rischia la morte», dice Hanane Alì, sorella dello «sceicco» del quartiere Dito, ripetendo quello che tutte le donne del campo hanno imparato a dire agli stranieri.