20 dicembre 2006

A proposito di questione morale

Dal sito del Corriere:

Si dimette il commissario anticorruzione

Gianfranco Tatozzi ha scritto una lettera a Prodi: «Decisione irrevocabile». Domani in conferenza stampa spiegherà i motivi

Con una lettera inviata al presidente del Consiglio, l'Alto Commissario per la lotta alla corruzione, Gianfranco Tatozzi, si è dimesso. Una decisione che lo stesso Tatozzi definisce «irrevocabile» e che avrà corso a partire da domani (mercoledì, ndr), quando spiegherà i motivi del suo atto di protesta con una conferenza stampa che ha indetto alle 12 nella sede di piazza San Lorenzo in Lucina, a Roma.

«SPIEGAZIONi» - Tatozzi, che guida dal 2004 l'ente nato per prevenire e contrastare la corruzione nella pubblica amministrazione, ha inviato una lettera di dimissioni a Prodi di poche righe, senza spiegare i motivi del suo gesto: «Le spiegazioni - si limita a dire all' Ansa - le darò all'opinione pubblica», nel corso della conferenza stampa durante la quale farà anche un bilancio della sua attività.

RISCHIO CHIUSURA - Ma i motivi dello scontento dell'alto commissario Anticorruzione si comprendono da quanto sostenuto appena due giorni fa, quando - in coincidenza con le polemiche suscitate dalla norma contenuta nel maxi-emendamento alla finanziaria che avrebbe comportato una sorta di 'colpo di spugna' per i reati contabili - Tatozzi lamentava una «insensibilità alla lotta alla corruzione» e metteva in guardia dal rischio di chiusura dell'organismo da lui guidato. Tatozzi ha più volte puntato l'indice contro «i reiterati e ostinati tentativi» di arrivare alla soppressione dell'alto commissario Anticorruzione. Un primo tentativo, poi fallito, era riconducibile al ddl Nicolais sulla semplificazione che prevedeva la cancellazione della struttura guidata da Tatozzi. Ma il rischio imminente di chiusura è ora rappresentato - ha più volte lamentato Tatozzi - dall'art.29 del decreto Bersani, che prevede la chiusura degli enti che entro il prossimo 4 gennaio non provvedano a un riordino con Dpr. «Non c'è sicuramente tempo per noi - aveva detto all'Ansa Tatozzi - questo è un tentativo silente e surrettizio per cancellare l'alto commissario Anticorruzione».

Qualche giorno fa Tatozzi aveva rilasciato un'intervista, che trovate qui, sui tentativi da parte dell'attuale governo di smantellare l'Alto Commissariato per la lotta alla corruzione.

15 dicembre 2006

Abandonware

Sono in molti ad aver avuto a che fare, fin dalla fine degli anni '80, con i primi personal computer e console come il Commodore64, l'Amiga ecc., e ad aver conosciuto i primi giochi, magari dalla grafica che ora giudicheremmo terribile, ma comunque molto creativi e divertenti.
Ebbene, dopo una fase di transizione in cui si sono visti giochi sempre migliori da far girare su computer sempre più potenti, in molti di questi giocatori di lungo corso ha iniziato a farsi strada una vocina, un ricordo delle ore passate tanti anni prima davanti ai vari Lemmings, Prince of Persia, o al primo Monkey Island.
Di conseguenza, qualcuno un po' più pratico si è messo di impegno per far girare quei vecchi giochi anche sui moderni pc, e sono nati i primi siti dedicati all'abandonware, neologismo che sta a indicare l'abandoned software, ovvero programmi ormai praticamente fuori circolazione.
Alcuni di questi siti sono: lostgames, abandonia, cdosabandonware, noodan e tanti altri facilmente trovabili con una ricerca in rete, da cui è possibile scaricare tantissimi archivi contenenti degli autentici pezzi da museo informatico.
La cosa in sè non è legale, dato che i diritti di copyright appartengono alle case di produzione per 75 anni, e infatti per mantenersi entro un confine accettabile i siti di abandonware tolgono dalla rete i giochi su richiesta. Tuttavia, ci si appella al fatto che si tratti di software (appunto) abbandonato dalle stesse case, ovvero per il quale non viene più fornito supporto, per cui questa opera di raccolta ha anche il fine di non vedere scomparire giochi e in genere programmi che hanno in un serto senso fatto la storia e, diciamocelo, sono un pezzo del nostro passato.

11 dicembre 2006

Cibo organico, equo e solidale: servono davvero?

Ho trovato un post molto interessante, che riassume questo articolo sul sito dell'Economist.

Capita sempre più raramente, ma quando capita è molto bello. The Economist, settimanale che qualche anno fa si poteva definire più o meno "conservative", e che ora non saprei proprio come chiamare, per una volta prova a ricordarci il grande magazine che era e dedica una copertina (nell'edizione europea), un editoriale e una signora inchiesta a una delle più grandi illusioni del marketing contemporaneo: quella del cibo socialmente, ecologicamente ed eticamente responsabile.

Non servono presentazioni, lo abbiamo presente tutti. Lo troviamo negli scaffali della Coop, in quelli di molti altri supermercati e - ormai - anche nella bottega sotto casa. Promette meraviglie: paghi un po' di più, ma in cambio dei tuoi soldi ti viene promesso: a) un cibo di qualità migliore, più saporito e più sano; b) un pianeta più bello, più pulito e più giusto; c) un contadino, da qualche parte del mondo, in un casolare accanto al raccordo anulare o in una fazenda del Mato Grosso, che la sera, invece di andare a svaligiare negozi per far quadrare i conti, ricorda proprio te, consumatore occidentale responsabile, nelle sue preghiere. Difficile dire no a un'offerta simile. Se poi sei di sinistra, ecologista e terzomondista e gli unici libri che hai letto sono quelli di Naomi Klein e Jeremy Rifkin, rifiutare è impossibile.

Solo che è un'illusione. O, se si preferisce, è marketing. Per i consumatori, per l'ambiente e per i contadini il commercio degli alimenti organici e dei prodotti equi e solidali (che sono due cose distinte, ma non di rado gli stessi prodotti sono l'una e l'altra cosa) è un enorme gioco la cui somma è assai più spesso negativa che positiva. I motivi, alcuni dei quali già noti, li mette in fila l'Economist, uno dopo l'altro.

Primo. Il cibo organico, cresciuto senza pesticidi e fertilizzanti chimici, che ogni anno movimenta un giro d'affari da 30 miliardi di dollari, è ritenuto più "environmentally friendly" del cibo coltivato con metodi tradizionali. Ma non è vero. In seguito alla "rivoluzione verde", ovvero all'introduzione nelle coltivazioni di prodotti sintetizzati dall'uomo (qui raccontata dallo scienziato che l'ha resa possibile, Norman E. Borlaug), si è triplicata, dal 1950 al 2000, la produzione mondiale di cereali, a fronte di un aumento delle aree coltivate pari appena al 10%. Se per ottenere la stessa quantità di cibo si fossero usati i metodi precedenti alla "rivoluzione verde", ovvero, in sostanza, i metodi dell'agricoltura organica, come la rotazione delle colture, l'area coltivata avrebbe dovuto essere triplicata rispetto ad allora. E siccome le aree ad uso agricolo sono sottratte agli alberi, delle foreste pluviali tanto care al Wwf e a Greenpeace oggi sarebbe rimasto ben poco. Inoltre questa minore resa delle coltivazioni organiche fa sì che, anche se l'energia necessaria a una piantagione convenzionale è superiore, in termini di quantità di energia usata per cibo prodotto il metodo "organico" di coltivazione si rivela più dispendioso, e quindi meno ecologico. L'inchiesta dell'Economist non ne parla, ma nel conto presto bisognerà mettere pure gli effetti della nuova rivoluzione verde che bussa alle porte, quella del cibo geneticamente modificato. E che promette di consentire rese produttive ben più alte di quelle attuali, valori nutrizionali più elevati e di garantire alle piante una forte resistenza ai virus e ai parassiti senza l'uso di prodotti chimici.

Secondo. Non vi è alcuna prova scientifica che il cibo coltivato con i metodi convenzionali sia in qualsivoglia modo dannoso per la salute, o che il cibo prodotto con metodi organici abbia proprietà nutrizionali più elevate. E' cosa nota, ma repetita juvant.

Terzo. Il commercio equo e solidale, in sostanza, prevede per i produttori un premio per il loro prodotto, sotto forma di un prezzo più elevato rispetto a quello di mercato, ritenuto troppo basso. Il problema è che se il prezzo di un bene (ad esempio del caffè) è basso, è perché vi è una sovrapproduzione di quel prodotto, o quantomeno di una data qualità di esso. Efficienza vorrebbe che il coltivatore cambiasse coltivazione e si dedicasse a qualcosa di più remunerativo, o che si dedicasse a un miglioramento della qualità e delle varietà delle sue coltivazioni. Ma l'extra-prezzo pagato da chi acquista i prodotti equi e solidali rappresenta un incentivo ad andare avanti nell'errore. I prezzi così restano bassi, e chi ci rimette sono soprattutto i coltivatori estranei al giro del commercio equo e solidale, che vedono i prezzi dei loro prodotti schiacciati ulteriormente dalla sovrapproduzione finanziata con i soldi del consumatore occidentale convinto di migliorare le sorti del sud del mondo.

Quarto. Argomento che anche uno di sinistra dovrebbe essere in grado di apprezzare al volo: solo il 10% dell'extra-prezzo pagato dal consumatore per il cibo equo e solidale arriva al coltivatore. Il resto finisce quasi tutto nelle tasche del venditore al dettaglio, convinto - a buona ragione - che di solito il consumatore interessato ad acquistare questi prodotti abbia una elasticità rispetto al prezzo piuttosto bassa. Cioè che sia disposto comunque a pagare un bel sovrapprezzo per mettere in dispensa un prodotto il cui appeal principale è ideologico, non alimentare o economico.

Quinto. L'ultima smania del cibo "ecologicamente sostenibile" è il cibo locale, cioè prodotto, commercializzato e acquistato a due passi dalla casa del consumatore. Ovviamente è l'ennesima riproposizione, in salsa ecologista, delle vecchie tesi protezioniste. Le motivazioni ecologiche risiedono nel tentativo di minimizzare l'energia usata per portare il cibo sulla tavola del consumatore finale. Ma se l'obiettivo è usare meno energia possibile, il modo più efficiente consiste nel commercializzarlo nei grandi supermercati e ipermercati, assai più vicini alla case dei consumatori di quanto non lo siano le aziende agricole che producono gli stessi prodotti. E sono proprio le automobili dei consumatori finali quelle che rendono elevato il consumo di energia. Il ragionamento è intuitivo: è più efficiente far trasportare una tonnellata di cibo da un solo grande veicolo che far trasportare mille chili di esso in altrettante automobili. Domanda: c'è qualcuno a sinistra disposto ad ammettere che la grande distribuzione è il metodo di vendita più ecologico, e quindi migliore per il pianeta? Non solo. Se si mette nel conto anche l'energia usata nel processo produttivo in sé, cioè prima del trasporto del cibo, saltano fuori sorprese interessanti. Ad esempio che sarebbe più ecologico che la Gran Bretagna acquistasse ovini e latticini in Nuova Zelanda piuttosto che produrli sul proprio territorio: l'energia usata per l'allevamento degli animali in Inghilterra, infatti, è talmente tanta che - da un punto di vista di consumo di energia e di emissione di gas serra, per chi crede che esista davvero una cosa chiamata "effetto serra" - il trasporto da posti in cui tale consumo è minimo, anche se lontanissimi, è una soluzione più conveniente.

Così, appena si abbandona l'ebbrezza dei facili luoghi comuni ecologisti e terzomondisti, e si vanno a fare due conti in modo intelligente, si scopre che la divisione del lavoro magnificata da Adam Smith e la globalizzazione garantiscono efficienza non solo da un punto di vista economico, ma anche da quello ambientale. Niente di cui essere stupiti. Almeno da queste parti.

Ora, nutro solo una lieve perplessità riguardo al punto terzo, almeno per l'esempio fatto. Per quanto ne so infatti il commercio del caffè è gestito da poche multinazionali, che tengono apposta il prezzo basso, per aumentare i guadagni. Magari non è vero ed è solo propaganda, non lo so. In ogni caso, per il resto mi sembra un ragionamento abbastanza sensato.

09 dicembre 2006

IB4D a "Più libri più liberi"

L'iniziativa di Italian Blogs For Darfur è stata presentata il 7 dicembre a Roma nell'ambito della manifestazione "Più libri più liberi". Ecco il video con l'intervento di Serena S.

05 dicembre 2006

Passata la partita, finita la pace

E' di oggi la notizia del colpo di stato alle isole Figi. E fin qui, potrebbe non esserci niente di strano.

Più notevole è invece il fatto che l'avvenimento non fosse affatto inaspettato, dato che era stato recentemente rimandato a causa di una partita di Rugby tra la squadra dell'esercito e quella della polizia!

04 dicembre 2006

Manageriale online

Alcuni mesi fa, grazie a un amico, ho scoperto Hattrick.
Si tratta di un gioco online a cui sono iscritti quasi un milione di utenti in tutto il mondo (la maggior parte in Europa).
Ogni nazione ha un certo numero di serie (l'Italia ne ha dieci) organizzate in gironi da otto squadre. Per poter partecipare si fa richiesta dal sito, e dopo un po' di tempo vi viene assegnata una squadra, generalmente appartenente alla serie X, che dovete gestire e migliorare per conquistare la promozione a gironi di serie successive.
Per apprendere le varie funzionalità del gioco esiste un tutorial, ovvero c'è una serie di prove il cui superamento dà dei premi in denaro che si possono utilizzare per iniziare a potenziare la squadra. Volta per volta è così possibile accedere a nuove caratteristiche del gioco, fino a ottenere la licenza. A questo punto, si dispone del gioco completo.
Esiste un forum, nel quale è possibile chiedere a giocatori più esperti consigli per andare avanti, e c'è la possibilità di vendere o comprare giocatori all'asta, una delle cose più divertenti; si amministra l'economia del club, e gestisce l'allenamento dei giocatori per farne migliorare le abilità.
Esistono anche regole abbastanza rigide su alcuni aspetti del gioco, che fanno sì che non ci siano perditempo o "cazzeggiatori", elemento che va a tutto vantaggio dello spirito di collaborazione e dell'onestà tra gli utenti.
In generale, per chi è appassionato di giochi come i vari Football Manager o Scudetto può essere senz'altro interessante, lo consiglio vivamente.